Bush, Obama e Trump in Afghanistan, il Far West d’Oriente, a combattere una “guerra senza fine”
[Articolo pubblicato in data 26/08/2017 su ilcosmopolitico.it]
Come tutti i suoi predecessori, anche l’attuale Presidente Usa Donald Trump conoscerà la polveriera dell’Afghanistan. La sabbia alzata dal vento offusca la vista e avvolge l’orizzonte in un’atmosfera tetra e allo stesso tempo abbagliante. Questo luogo, soffocante di giorno, pungente di notte, è per gli americani il Far West d’Oriente, la guerra più lunga mai condotta dagli Stati Uniti.
In un solo anno i talebani, spesso in alleanza con l’Isis, si sono impadroniti di 50 distretti che avevano perso nel 2001 dopo l’11 settembre, e hanno ucciso una media di 20 soldati afghani al giorno, 6mila dal 2016; dall’inizio dell’anno sono morti in attentati kamikaze e con bombe 1600 civili, la maggior parte nella capitale Kabul.
In Afghanistan si misurano le contraddizioni e i limiti della strategia Usa. Finora la dottrina americana si è basata su due pilastri: il primo è l’uso dei raid aerei al posto delle truppe per contrastare i talebani in Afghanistan; il secondo è armare e addestrare le forze locali per combattere sul terreno. Con il tempo si è capito che i raid americani sono inefficaci mentre le forze armate locali si disfano già dalla prima seria offensiva, come è successo nel 2014 a Mosul (Siria) dove i jihadisti presero la città quasi senza sparare un colpo.
A questo punto Trump, convinto dai suoi generali, invierà altre truppe nel Paese in appoggio agli 8.900 soldati Usa già presenti sul terreno. Saranno sufficienti? Secondo il generale Roger Turner no. Infatti, durante un suo viaggio nelle scorse settimane nell’Helmand, il generale è rimasto sconvolto. Ha visto i marine che hanno dovuto temporeggiare l’assedio al capoluogo Lashkar Gah mentre l’intera provincia è in mano ai talebani che, nel frattempo, hanno fatto fuori tutti i capi tribali con cui Turner aveva anni fa negoziato per la difesa della regione. L’Helmand, infatti, è molto strategica per la guerriglia e il traffico dell’oppio. I talebani non hanno fatto molta fatica a riconquistare questa area.
La polvere dell’Afghanistan da oltre due secoli offusca le strategie delle superpotenze.
Quando è iniziata questa “guerra senza fine”?
Tutto è cominciato nel dicembre 1979 quando l’Armata Rossa, dopo la rivoluzione khomeinista in Iran, invase il Paese e gli americani attraverso i soldi sauditi appoggiarono la guerra dei mujaheddin contro l’Urss: considerati inizialmente “eroi” sono diventati in breve tempo “barbari” jihadisti e talebani. Jalaluddin Haqqani, ritenuto ancora oggi uno dei più potenti e sanguinari jihadisti, venne allora descritto da Charlie Wilson, deputato americano, come la “bontà impersonificata” (le vicende legate alla sua carriera politica vennero raccontate nel film “La guerra di Charlie Wilson” del 2007, interpretato da Tom Hanks e Julia Roberts). Nel frattempo i generali pakistani ritengono che Jalaluddin e suo figlio Sirajuddin siano i loro migliori alleati per riprendere l’influenza sulla Linea Durand, frontiera popolata dai pashtun: per Islamabad l’Afghanistan è parte vitale della sua strategia perché sull’altro fronte c’è l’India.
Con i suoi servizi segreti, il Pakistan spalleggia da sempre la guerriglia talebana e, nonostante le minacce Usa, continua a manovrare i gruppi islamici radicali facendo leva sulle rivalità locali, mai finite, tra l’etnia prevalente dei pashtun e le altre componenti della società afghana. E i talebani sfruttano queste logiche tribali per trasformare il conflitto su base etnica e religiosa.
Ma il momento chiave è stato l’11 settembre 2001: gli Stati Uniti erano stati colpiti dal più grave attentato della loro storia, quando tre voli di linea erano stati dirottati e fatti schiantare sulle due torri del World Trade Center e sul Pentagono e un quarto neutralizzato dai passeggeri e fatto precipitare in Pennsylvania, prima che colpisse la Casa Bianca o il Congresso. Gli attentati erano stati organizzati e rivendicati da al Qaida e dal suo leader Osama bin Laden.
In risposta a questo attacco, il 7 ottobre del 2001 cominciava in Afghanistan una guerra dichiarata dagli Stati Uniti e dal Regno Unito allo scopo di combattere l’organizzazione terroristica al Qaida, che grazie al sostegno dei talebani aveva fatto del paese asiatico il suo rifugio e la sua base operativa.
Testimonianza diretta di quelle ore la dà, sul Corriere della Sera di lunedì 8 ottobre 2001, l’articolo dell’inviato a Washington Marco Imarisio: “La nuova guerra americana comincia al mattino presto, cinque ore prima dell’attacco all’Afghanistan. Con una serie di riunioni al Pentagono, nella quali gli ospiti fissi sono il viceministro della Difesa Paul Wolfowitz, il generale Richard Myers, capo delle operazioni militari, il suo numero due, Peter Pace. Briefing domenicali, giudicati “inusuali”. Sono il segnale che qualcosa sta per accadere. Nessuna smentita, anzi.”
La macchina da guerra americana era pronta all’attacco.
Il mondo se ne renderà conto poco dopo: “Alle 12.40, ora di Washington, le televisioni interrompono i programmi per mostrare le immagini dei missili sopra la notte di Kabul. Un alto ufficiale si limita a “dare conferma” di quello che è già chiaro a tutto il mondo”. La prima fase dell’operazione militare anglo-americana si sviluppò con intensi bombardamenti aerei contro i campi d’addestramento delle milizie integraliste, mentre in parallelo proseguì l’avanzata di terra dell’Alleanza del Nord. Ma, nonostante la frequenza e l’intensità degli attacchi, dopo due settimane il fronte talebano si mostrò ancora unito, grazie anche all’arrivo di milizie dal Pakistan. Poi l’aumento del numero di truppe e la potenza del fuoco anglo-americano fiaccò però i talebani e, a un mese dall’inizio dell’attacco, aprì la strada per l’avanzata prima a Mazar-i-Sharif e poi a Kabul, abbandonata dalle forze governative la notte del 12 novembre. Il regime talebano era stato rimosso dal potere e importanti figure di al Qaida e dei talebani fuggirono nella zona al confine col Pakistan.
Alla fine dell’anno il Consiglio di Sicurezza dell’Onu creò la cosiddetta missione ISAF (International Security Assistance Force). Alla missione parteciparono decine di paesi, tra cui Germania, Francia, Italia, Polonia, Romania, Turchia, Australia, Spagna, Albania, Belgio, Canada, Repubblica Ceca, Norvegia. A questo punto la Difesa statunitense, per bocca del ministro Donald Rumsfeld, dichiarò di esser pronta a lasciare l’Afghanistan non appena Al Qaeda e il regime talebano saranno distrutti e verranno catturati i loro leader, tra cui Osama bin Laden e il mullah Omar. I giornalisti scrivono di quei giorni: “Soltanto un rovescio improvviso dell’Alleanza del Nord o lo scoppio di un conflitto civile potrebbe rilanciare il piano originario americano di fare dell’Afghanistan un altro Kosovo”.
Ai successi militari conseguiti nell’inverno 2001, che si conclude con la cacciata dei talebani da Kunduz e Kandahar, non fece seguito la cattura del ricercato numero uno Osama bin Laden, sul quale pendeva una taglia di 25 milioni di dollari lanciata dal governo americano. Svanita l’occasione di fermarli sui monti di Tora Bora, Bin Laden e gli altri comandanti di Al Qaeda fuggirono verso il Pakistan. Nel frattempo venne diffuso un nuovo video in cui il leader terrorista e al-Zawahiri, suo braccio destro, mostrano soddisfazione per il traguardo prefisso, in riferimento agli attentati dell’11 settembre. E per gli anglo-americani iniziò presto l’estenuante conta delle vittime sul campo. Per l’America, che credeva in una facile vittoria, fu uno sviluppo disastroso. In questi ultimi giorni del 2001 Bush cercò di mantenere dalla sua il popolo americano: “Dobbiamo essere pazienti e disposti a subire delle perdite. Presto il nemico non avrà dove nascondersi, il nostro trionfo è certo”.
Il primo anniversario dell’11 settembre, verrà ricordato con le notizie dello stallo militare sul terreno afghano e la minaccia di un nuovo conflitto in Iraq. Gli americani iniziarono a dubitare della missione Enduring Freedom e i media internazionali iniziarono ad alzare feroci critiche contro l’amministrazione Bush.
Di quel giorno scrive Ennio Caretto: “Un anno dopo, la voragine di Ground Zero è sgombra, New York riposa, l’America e gli americani non sono più gli stessi. La catastrofe li ha in parte cambiati. Li ha resi migliori, verrebbe da dire, rispetto agli sfrenati anni Ottanta e Novanta: più introspettivi e uniti, meno scettici e aggressivi. In Europa è polemica sull’unilateralismo e l’arroganza della Superpotenza nell’età del terrore e sulla sua impazienza verso gli alleati. Ma conviene distinguere tra la maggioranza degli americani e l’amministrazione Bush con i suoi falchi”.
La NATO prese il controllo della missione nel 2003 e favorì la ricostruzione del Paese, addestrando le forze di polizia locali e aiutando a preparare le prime elezioni democratiche dell’Afghanistan, che portarono nel 2004 alla conferma di Hamid Karzai come presidente. Ma l’entusiasmo di quei momenti non bastò a riportare la pace nella nazione, e anzi, il governo eletto iniziò a tentare accordi con le forze talebane sopravvissute. Le operazioni militari continuarono in tutto il Paese, ma l’Occidente iniziò a perdere posizioni, complice l’apertura del nuovo fronte di guerra in Iraq. In molti accusarono così il governo americano di aver indebolito la propria presenza in Afghanistan compromettendo il successo della missione militare.
Sette anni dopo l’11 settembre finì l’era Bush. A guidare gli Stati Uniti arrivò il giovane senatore afro-americano dell’Illinois Barack Obama, scettico riguardo l’operazione militare contro l’Iraq di Saddam Hussein, ma convinto sostenitore della necessità di proseguire la guerra al terrore in Afghanistan. Infatti Obama inviò in Afghanistan 30.000 nuovi soldati, raddoppiando il loro numero e ripercorrendo una strategia chiamata surge che aveva dato buoni risultati durante l’ultima fase della guerra in Iraq sotto il comando del generale David Petraeus.
La strategia funzionò: nella mattina del 2 maggio 2011, un plotone di Navy Seal e forze della Cia riuscì a localizzare Bin Laden ad Abbottabad, nei pressi di Islamabad, e lo uccise nel corso di uno scontro a fuoco seguito in diretta dal Presidente americano.
Dopo qualche anno però, dopo aver ultimato il ritiro delle truppe da combattimento in Iraq, il Presidente decise di fare la stessa cosa in Afghanistan.
Una decisione che Obama cambiò ancora nel 2015, rimandando la partenza delle truppe americane di qualche anno, alla luce del nuovo quadro internazionale: “Non mi piacciono le guerra senza fine, ma non posso consentire che l’Afghanistan torni a essere un rifugio sicuro per i terroristi che minacciano anche la nostra sicurezza: la missione di combattimento è finita ma alcune migliaia di soldati americani dovranno restare nel Paese anche oltre il 2016 perché l’esercito afghano ha fatto passi avanti, ma non è ancora in grado di farcela da solo”.
Adesso a guidare il Paese c’è Donald Trump. Il presidente, spinto dai suoi consiglieri-militari, ha preso la decisione di inviare altre truppe nel Paese dell’Asia centrale. Quale sarà la sua strategia una volta che le truppe arriveranno sul terreno?
Finora il prezzo da pagare è stato altissimo. Non esistono stime precise delle persone morte in Afghanistan dall’inizio della guerra a oggi. Il numero dei civili uccisi in 16 anni oscilla tra 20.000 e 35.000. A oggi gli americani contano 2403 vittime e 19.650 soldati feriti.
La guerra al terrorismo riparte.
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